Palm fruit, having been harvested is piled up in order to be weighed.

Foto: James Morgan / WWF-International

Di Manlio Masucci, Lettere di Transito, 23 giugno 2017

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La certificazione potrebbe non essere sufficiente a garantire la sostenibilità della produzione e il rispetto dei diritti dei lavoratori. In particolare quando si tratta di olio di palma, l’olio vegetale più consumato al mondo con un giro d’affari globale di circa 40 miliardi di dollari. I dubbi sul corretto funzionamento e l’efficacia della Rspo, la tavola rotonda sulla sostenibilità dell’olio di palma, erano già stati sollevati in svariate occasioni da sindacati e organizzazioni non governative. L’ultimo rapporto pubblicato dal Somo, il centro di ricerca sulle multinazionali, e da Cnv International, la fondazione della confederazione dei sindacati cristiani dell’Olanda, conferma ora le preoccupazioni sulla reale sostenibilità dell’olio di palma certificato. Le ricerche condotte presso due aziende indonesiane certificate, la PT Murini Sam Sam (MSS) and PT Aneka Inti Persada (AIP), hanno, infatti, dato esito negativo: sfruttamento dei lavoratori, utilizzo di lavoro minorile, irregolarità nelle modalità d’impiego e intralcio alle attività sindacali sono solo alcune delle infrazioni più gravi riscontrate nelle piantagioni certificate.

L’olio di palma è una sostanza relativamente economica utilizzata in circa il 50% dei prodotti di uso comune come alimenti, cosmetici, detergenti, biocarburanti. La richiesta di questo prodotto è praticamente decuplicata dagli anni ’80 ed è in continua crescita con un aumento dell’11% negli ultimi quattro anni. Se i ritmi attuali verranno mantenuti, la richiesta potrebbe addirittura raddoppiare entro il 2030 e triplicare entro il 2050 con impatti ambientali devastanti. Lo sviluppo di nuove piantagioni comporta, infatti, la sistematica deforestazione di aree incontaminate e la dislocazione forzata di intere popolazioni, spesso lasciate alla mercé dei trafficanti di esseri umani. Il maggiore produttore è proprio l’Indonesia che esporta il prezioso olio soprattutto in India (21%), Cina (11%), Pakistan (7,6%) e Italia (6,2%). La Rspo, creata nel 2004, ha classificato come “sostenibile” il 21% della produzione attuale e ha recentemente lanciato un appello agli industriali dell’Unione Europa, inserito successivamente nella Dichiarazione di Amsterdam del 2015, affinché si raggiunga l’obiettivo del 100% di olio certificato entro il 2020. 

Un obiettivo evidentemente poco realistico, secondo gli autori del rapporto che mettono in discussione l’affidabilità della produzione già certificata, sottolineando come le violazioni riscontrate non possano essere considerate accidentali ma “strutturali”. E’ quanto emerge dalle investigazioni condotte presso due aziende indonesiane. La MSS, compagnia operativa nell’isola di Sumatra, è una compagnia del gruppo Wilmar, che controlla il 43% del mercato globale dell’olio di palma, ed è stata certificata come sostenibile dalla Rspo nel 2016. Una sostenibilità contestata dai dati del rapporto che individua irregolarità negli orari di lavoro, nel sistema d’impiego e nelle retribuzioni. In particolare, le retribuzioni, che si attestano a ridosso del salario minimo legale di 181 euro al mese, vengono spesso calcolate in relazione al raggiungimento degli obiettivi stabiliti dall’azienda. E’ proprio l’obbligo di dover raggiungere il livello di produzione quotidiano che spingerebbe i lavoratori ad avvalersi dell’aiuto di membri della propria famiglia, fra cui bambini.

Anche la compagnia AIP, parte del gruppo malese Sime Darby, è operativa nell’isola di Sumatra, dove impiega complessivamente circa 1.900 lavoratori. Le condizioni di lavoro presso la AIP, che ha ricevuto la sua certificazione Rspo nel 2011, appaiono simili a quelle riscontrate presso la MSS con obiettivi di produzione particolarmente ambiziosi, stimati in 1.300 chilogrammi di prodotto lavorati giornalmente per singolo lavoratore. Una quantità ingente, sostengono i dipendenti intervistati, che può essere raggiunta solo continuando a lavorare oltre gli orari di lavoro stabiliti e retribuiti. Anche in questo caso, bambini e donne popolano le piantagioni per aiutare i familiari a raggiungere gli obiettivi posti dalla dirigenza. L’indagine Somo/Cnv è l’ennesima ricerca indipendente che contesta l’affidabilità della certificazione Rspo. Pochi mesi fa, Amnesty International aveva accusato multinazionali del calibro di Colgate, Nestlé e Unilever di approvvigionarsi da fornitori che violano “sistematicamente” i diritti dei lavoratori e di utilizzare la tavola rotonda come scudo per le loro operazioni.